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LATTE DI MAMMA: PUÒ ESSERE FONTE DI MALTRATTAMENTI L'Avvocato risponde 

LATTE DI MAMMA: PUÒ ESSERE FONTE DI MALTRATTAMENTI

Girovagando fra le pronunzie giuridiche, spesso ci troviamo di fronte a concetti difficilmente digeribili dai più!

Cosa ci può essere di maggiormente puro e poetico dell’immagine di una madre che allatta il proprio bambino?

Eppure, la sentenza della Corte di Cassazione 43307/2023, seguendo un nuovo corso giurisprudenziale, ha posto un limite anche a questo: sancendo che, una madre che allatta il proprio neonato dopo aver assunto sostanze stupefacenti, si rende colpevole del reato di maltrattamenti familiari, ex art.572 Codice Penale.

Molti si chiederanno come ciò sia possibile ed, insieme all’avvocato Simone Labonia, cercheremo di fare chiarezza sullo strano evento che ci troviamo a commentare.

In buona sostanza, il delitto di maltrattamenti, non deve considerarsi un reato legato all’avverarsi di un “effetto”, ma è posto in essere dalla “mera condotta”: quindi, ai fini della sua configurazione, è sufficiente che sussista un’attività idonea a determinare un’oggettiva condizione di sofferenza psico-fisica nella vittima, senza l’obbligatorietà che tale stato si materializzi o manifesti concretamente.
Se così non fosse, specifica la Suprema Corte, la delineazione del reato di maltrattamenti sarebbe sottoposta ad una valutazione aleatoria, legata ad una diversa sensibilità della vittima, del contesto sociale in cui si consuma e del grado di resistenza individuale del soggetto soccombente.
La sentenza che abbiamo citato, ha confermato la condanna nei confronti di una madre, per aver obbligato il figlio, seppur neonato, a vivere in penose condizioni ambientali ed anche, e soprattutto, per aver costretto lo stesso all’assunzione, seppur indiretta, delle sostanze stupefacenti di cui lei faceva abituale uso, seppur in periodo di allattamento.

In verità, l’appello proposto dall’imputata “madre”, verteva solo sulla contestazione di una aggravante di “dolo”, non trovando alcuna motivazione valida, per contrastare l’essenza del reato commesso.
La linea difensiva, tendeva poi a confutare una omessa verifica di situazione di fatto, mancando la prova di una reale incidenza negativa sulla salute del neonato stesso.

Specifica la Corte che, il “dolo nei maltrattamenti”, non implica l’intenzione di sottoporre a vessazioni la persona offesa, ma prevede solo la consapevolezza e volontà di attuare un comportamento, che possa avere un’oggettiva valenza negativa, accettandone gli sviluppi, a prescindere da una reale lesione di diritti umani essenziali.

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